L'AUSTRALIA

Dopo alcuni mesi le due donne si stabiliscono a Perth, dove Dáša inizia a lavorare in un ristorante e poi come infermiera occupandosi di persone anziane e malati mentali. Allo stesso tempo mette a frutto l’esperienza maturata umanamente in carcere e fa assistenza terapeutica in alcuni penitenziari.

Da sinistra: Dáša, la madre Marta e la sorella Marta.

Approfondisce anche la sua vena artistica e partecipa ad alcune mostre collettive e intanto segue un corso per indossatrici e controfigure:


Anche in Australia non getta nulla del suo passato: fa parte di Amnesty International, e riesce a completare gli studi universitari laureandosi in storia dell’arte e scienze sociali.

“Quando mi ritrovai in Australia con altri studenti e recitai una preghiera di ringraziamento prima di ricevere il diploma, non vidi la processione di studenti, i professori e gli studiosi, ma Růžena e le altre, come se fossero sedute sul podio, e le facce pallide delle magre studentesse mendicanti, una folla che scavalcava le recinzioni e si nascondeva sotto i letti a castello e si protendeva attraverso le sbarre e soffriva il freddo e la fame, e andava in cella di correzione per un po’ di sapere e di istruzione. E mi stupii che io, una che proveniva da quelle schiere trasandate, avessi avuto la fortuna di portare a termine ciò che non era stato concesso alle altre„

Dopo l’89 ritorna varie volte in Cecoslovacchia e ottiene la riabilitazione. Ammalatasi di cancro, muore a Perth il 24 febbraio 1995.


“Cominciammo a credere che il Signore non ci avrebbe caricato inutilmente di un peso superiore alle nostre forze. Non aveva deciso a caso la nostra sorte, ma perché sapeva che avremmo retto alla prova; ci aveva scelte per uno scopo misterioso, perciò cominciammo a cogliere la saggezza che guidava la nostra vita… Non stavamo vivendo un tragico episodio della nostra vita, ma la sua parte più importante, dove ci veniva offerta la possibilità di conoscere da vicino tutto ciò che la vita umana contiene, dalle vette più alte fino alle buie cadute. Ma non ci siamo limitate a macinare preghiere, ci lanciavamo in battaglia come i primi crociati, con la convinzione che ogni caduto per la verità sarebbe stato ricompensato con la vita eterna, dove non ci sarebbe stata né derisione, né fame, né dolore, né freddo, né paura, né un numero cucito in un punto visibile della divisa da carcerato. Ma non dobbiamo dimenticare che eravamo tutt’altro che le sante cristalline delle vetrate delle cattedrali. Neppure per un attimo cessammo di essere donne scaltre e perfide, e non concedemmo un attimo di respiro ai nostri aguzzini„